Il mio Iran visto
attraverso l’hijab
di Tiziana Sforza
Otto giorni con l’hijab sulla testa.
Otto giorni con le braccia e
le gambe rigorosamente coperte, anche quando la temperatura saliva oltre i 30
gradi.
Otto giorni con la
consapevolezza che, una volta rientrata a casa, avrei potuto restituire quel
velo alla sua originaria funzione d’uso: proteggere il mio collo dal vento.
Otto giorni sono pochi per
comprendere realmente che cosa significa essere donna in Iran.
Ma sono sufficienti per
averne un assaggio.
E così scopro che cosa vuol
dire dover mangiare con attenzione e a piccolissimi bocconi per non sporcare di
cibo il velo appena che mi contorna il viso.
Scopro che cosa vuol dire sentire
la testa che scotta per il sole cocente, con l’effetto del calore amplificato
dalla stoffa.
Scopro che cosa vuol dire
poter usare una sola mano per fare tutto (scattare una fotografia, sfilarsi i
sandali prima di varcare le porte di una moschea, reggere la borsa che sta
scivolando lentamente…) perché intanto l’altra mano è impegnata a tenere
stretti insieme i lembi del chador.
Se l’hijab – un foulard che copre capo e collo - è perlomeno
sopportabile, il chador mi fa catapultare in un’altra dimensione. Devo
indossarlo per accedere alle principali moschee del paese.
Se una donna non ha il
proprio chador, gliene viene gentilmente offerto uno all’ingresso.
E’ grande all’incirca quanto un
lenzuolo a una piazza e mezza. Spesso è di flanella, il che può essere
gradevole nella stagione invernale, un po’ meno nel periodo compreso fra aprile
e ottobre. Se non conosci la tecnica per indossarlo, la cosa più facile da fare
è poggiarselo sul capo e cercare di annodarselo da qualche parte, sperando che
non scivoli per strada durante il cammino. Spesso ho rischiato inciampare nei
suoi lembi.
E quando – mio malgrado – il
chador non riusciva ad avvolgermi completamente e fuoriusciva un ciuffo di
capelli o un centimetro quadrato di collo, la punizione non tardava: le severe
signore addette al rispetto delle procedure mi bacchettavano con uno “scopino”
verde. Sì, proprio quello che si usa per spolverare.
L’esperienza del chador mi ha
fatto sentire goffa, imbranata, impacciata e impedita nei movimenti. Si sentono
così anche le donne iraniane?
Molte di loro hanno ormai
imparato a convivere con l’hijab,
alcune lo indossano con grande disinvoltura e lo hanno perfino trasformato in un
accessorio di moda.
Altre donne lo subiscono.
Resta il fatto che, un hijab
correttamente indossato è il foglio di via per vivere al di fuori delle pareti
domestiche e per svolgere professioni che prevedano il contatto con il
pubblico: nella pubblica amministrazione, nella scuola, nell’università, negli
ospedali, nelle compagnie aeree, etc.
Rimangono però dei divieti:
ad esempio pur coperte dall’hijab, alle donne non è comunque consentito andare
allo stadio.
Sugli autobus siedono in una
zona loro riservata, per evitare qualunque forma di contaminazione con gli
uomini. Questo divieto non vale però in aereo, il che conferma la schizofrenia
sociale che ruota attorno alla percezione delle donne nella società. Loro però
non si rassegnano a chi le vorrebbe coperte e relegate al rango di mogli e
madri.
Le ho viste sorridenti su una
corriera che le conduceva in gita scolastica, con la loro divisa composta da
hijab e manteau nero.
Le ho viste passeggiare nel bazar
di Teheran, sorseggiando freschissimi frullati di banane e pistacchi, di cachi
e datteri.
Le ho viste guidare
automobili e taxi, in modo altrettanto aggressivo e forsennato dei loro
colleghi uomini.
Le ho viste truccatissime,
curatissime, ossessionate dalla perfezione fisica.
Parisa Nazari, giovane iraniana residente in Italia e
fondatrice dell’associazione “Donne per la Dignità”, mi spiega il motivo di
questa ossessione. “In Iran le donne, con il loro abbigliamento, definiscono il
loro rapporto con le istituzioni, che vietano loro di vestirsi secondo la
propria volontà. Ho sempre ammirato il loro coraggio
e la loro determinazione, anche se a volte
trovo che qualcuna abbia un look eccessivamente appariscente”.
Nelle grandi città (Teheran,
Isfahan, Shiraz, etc.) ciuffi di capelli cotonati e lucenti contornano i loro
visi perfetti, gli occhi impreziositi da kajal e ombretti brillanti, le
sopracciglia tatuate per dare maggiore profondità allo sguardo, i nasi rimodellati
dal sapiente tocco del chirurgo estetico.
Già, perché in Iran la
rinoplastica pare essere diventato lo sport nazionale.
Solo a Teheran lavorano oltre
300 chirurghi specializzati in questo settore. Le donne che si sottopongono
all’operazione – che costa di base circa quattrocento dollari - hanno fra i 9 e
i 45 anni. Spesso sono gli stessi genitori a “farne dono” alle proprie figlie.
E all’uscita dalla sala operatoria, sfoggiano il nuovo nasino bendato
pregustando il momento in cui potranno mostrarlo in tutto il suo splendore. Perché
lo fanno? Secondo la legge, le uniche parti del corpo che possono restare
scoperte sono il viso, le mani e i
piedi. È ovvio che le ragazze iraniane ci tengano a rimuovere la minima imperfezione
da quel poco che possono mostrare.
Anche sull’abbigliamento,
nelle grandi città, è concessa qualche licenza. Occorre sì coprire gambe e
braccia. Ma spesso i pantaloni sono sostituiti dai fuseaux. Le casacche e i
cappotti non sono poi così larghi: ciò che va per la maggiore è il manteau - che negli ultmi anni assomiglia più ai vestiti occidentali e meno al sobrio
manteau islamico di una volta - ossia uno spolverino aderente e dai
più svariati colori (a volte anche leopardato o tigrato) che evidenzia le forme
femminili e slancia la figura. Ovviamente al manteau va abbinato l’hijab - complemento imprescindibile
dell’abbigliamento - che ne riprende i colori o la fantasia.
“La moda creativa – continua
Parisa Nazari - permette alle donne da una parte di non rischiare pene severe
per aver infranto il codice di abbigliamento vigente, dall'altra di esaudire il proprio desiderio di esprimersi. Questa scelta io la percepisco come una lotta
contro chi interpreta le leggi islamiche imponendo alle donne di presentarsi in
pubblico mostrando solo il viso e le mani. E’ vero, ci sono donne che credono
nel’hijab e lo indossano per convinzione
religiosa, ma molte lo indossano solo per
non essere incriminate. Chi poi decide di truccarsi, indossare un velo
colorato che copre poco o un manteau aderente e corto fa una scelta
precisa ogni volta che esce di casa. Sceglie di correre il rischio di essere
fermata, multata e condotta in commissariato come se fosse una criminale”.
Secondo la legge, infatti, chi non indossa l'hijab in modo ortodosso rischia una multa
salata, le frustate o il carcere. L’articolo 638 del Codice penale iraniano,
ratificato nel 1996, afferma che “Chiunque violi esplicitamente un tabù
religioso in pubblico, oltre ad essere punito per il gesto
specifico, sarà incarcerato da dieci giorni a due mesi oppure sarà flagellato
(74 frustate). Le donne che compaiono in luoghi pubblici senza indossare un
velo adeguato saranno condannate da dieci giorni a due mesi oppure a versare
un’ammenda da 50.000 a 500.000 riyal”.
L’associazione “Justice for Iran” ha denunciato che negli ultimi dieci anni
(2003-2013) sono state arrestate più di trentamila donne a causa del copricapo
“inadeguato”.
Ma cosa significa indossare
il velo in modo adeguato? Il Corano di per sé non fa riferimento a hijab o chador. Sono le sue successive interpretazioni ad aver introdotto
la pratica di nascondere il corpo della donna affinché l’uomo non cada in
tentazione.
Quando ho visto le giovani
ragazze sedute sulle panchine del giardino botanico di Shiraz chiacchierare con
i loro fidanzati, ho pensato che tutto sommato né la legge né il servizio di
“polizia morale” riescono a fermare la voglia degli adolescenti di vivere, di
conoscersi, di amare. In realtà la scena romantica a cui assisto nei giardini
di Shiraz non è che la punta dell’iceberg. Pare infatti che, soprattutto nelle
grandi città, esista una sorta di schizofrenia fra vita “pubblica” – fatta di
osservanza formale dei dettami in tema di abbigliamento e gestione delle relazioni
– e vita “privata”, quella delle feste che si svolgono fra le pareti di casa –
fatta di eccessi, fiumi di alcool, disinibizione e a volte droga. L’importante è che tutto avvenga all’interno
delle pareti di casa: se ti beccano sono guai.
“La
cosiddetta schizofrenia iraniana – spiega Parisa Nazari - è una condizione
grave con la quale ho convissuto anche io fino all'età di 18 anni, quando ho lasciato il mio paese. Avere
una vita privata fondamentalmente diversa da quella pubblica e doverla
nascondere a chiunque non venga considerato di fiducia è particolarmente
difficile per un bambino o per un adolescente, che avrebbe bisogno di
definire in modo univoco il proprio rapporto con la società. Per un
genitore, poi, non è facile riuscire a
educare un figlio a non raccontare
a scuola come si vive nella propria casa senza lasciare un segno nella sua
psiche: non raccontare per esempio una semplice
festa di compleanno, perché questo
vorrebbe dire rischiare di far sapere che si festeggia con la musica
proibita e le vietatissime bevande alcoliche, insieme alle donne non velate. Si sopravvive
imparando a riconoscere chi fa parte del proprio mondo e chi
no, creando un cerchio di amicizie e conoscenze che fanno sentire al sicuro”.
Parisa Nazari e l’Associazione “Donne per la Dignità”
Parisa Nazari è venuta in Italia per studiare. Si è laureata in farmacia. Collabora
con varie associazioni culturali e nel 2011 ha fondato insieme ad
alcune amiche italiane e iraniane l’associazione culturale e di promozione
sociale “Donne per la Dignità”, con l’intento di promuovere l'arte e la cultura
iraniana attraverso festival, seminari, spettacoli teatrali, proiezione dei
film, lettura di poesie etc. L’associazione è impegnata in attività per
abbattere gli stereotipi creati negli ultimi decenni sugli iraniani in
generale e sulle donne iraniane in particolare.
Per informazioni: http://donneperladignita.blogspot.it/
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